Articolo di Laura Ricci

 

Nel conflitto, l’altro mi obbliga a considerarlo, mi invita a vedere un punto di vista che non sia il mio, amplia il mio campo di comprensione del mondo. La felicità non dipende dalle circostanze piacevoli o spiacevoli, ma dal nostro atteggiamento di fronte a queste circostanze.”

(Isabelle Filliozat)

 

Il conflitto è una realtà, un’esperienza comune, quotidiana e costante nella nostra vita, uno stato di relazione che riguarda due o più persone. Il conflitto è un modo naturale di crescita.

Il conflitto, come cita il vocabolario, è immediatamente associato alla guerra, ad immagini dolorose e sgradevoli che ci fa pensare allo scontro, alla lite, alla violenza, al disagio, allo spreco di energia nella discussione. Più difficilmente è associato al cambiamento, all’opportunità offerta di crescita, di creare conoscenza ed apprendimento sia per se che per gli altri.

L’educazione tradizionale usava il termine disciplina per definire e regolamentare i comportamenti problematici; la pedagogia progressista del ‘900 utilizzava il termine cooperazione, credendo nella capacità dei bambini di organizzarsi autonomamente nelle attività di gruppo, eliminando così situazioni problematiche. Entrambi i termini però non chiariscono e aiutano a comprendere appieno, come afferma D. Novara, l’estrema ricchezza dell’esperienza conflittuale.

 

Il punto di vista dell’adulto

Negli ultimi anni si sta assistendo ad una profonda crisi del modello educativo e ad un accentuarsi di fenomeni definiti come “bambino tiranno” o “bambino narcisista” che non sono altro che il manifestarsi dell’egocentrismo della nostra epoca, dove l’autoreferenzialità lascia poca possibilità di essere ostacolata.

Il litigio tra bambini è considerato troppo spesso dagli adulti, principalmente dai genitori, come un’interruzione dell’ordine stabilito, ed in quanto tale deve essere evitato. Questa visione, conseguenza del mito del “bravo bambino”, conduce ad un modello educativo che vieta il litigio e che in caso di conflitto porta inevitabilmente all’individuazione di un colpevole. Come afferma D. Novara invece “La convivenza nasce dal conflitto, non a prescindere da esso”.

Un bambino che non ha potuto sperimentare il conflitto con i fratelli, con i coetanei, ma anche con gli adulti, con molta probabilità da adulto avrà più difficoltà ad affrontare in maniera costruttiva i problemi legati alla relazione con gli altri. E’ proprio grazie alla possibilità di affrontare lo scontro che si riesce a stare con l’altro: il bambino impara a riconoscere se stesso e gli altri, scopre i limiti del proprio egocentrismo, esprime e riconosce le proprie emozioni. E’ in queste occasioni che il bambino individua le proprie capacità, impara a sbagliare e a trovare soluzioni creative.

Quindi al contrario di quello che immaginano gli adulti, i bambini devono poter litigare per poter crescere autonomamente ed accrescere le loro competenze relazionali.

 

Litigio, conflitto e violenza nei bambini

Prima dei tre anni i litigi tra bambini assumono la forma di veri e propri scontri fisici, che nascono a prescindere da motivazioni reali. Successivamente i motivi del litigio riguardano la frustrazione nell’ottenere qualcosa o nel raggiungere uno spazio.

In questi scontri, caratterizzati da forte fisicità, non vi è però violenza intenzionale ma sono la diretta conseguenza del fatto che lo sviluppo comunicativo non rende ancora possibile la verbalizzazione delle emozioni.

Tra bambini si può parlare di litigio e non di conflitto vero e proprio, soprattutto perché fino all’età di 6 anni non è presente, dal punto di vista psicoevolutivo, il pensiero reversibile, cioè la memoria delle offese ricevute. Ciò impedisce lo sviluppo dei sentimenti di rancore o vendetta che invece caratterizzano i conflitti tra gli adulti. E’ per questo motivo che i litigi tra bambini hanno fine dopo pochissimo tempo e che i bambini sembrano avere una capacità innata di fare pace.

 

Strategie e gestione del conflitto

Piuttosto che evitare gli scontri e i litigi tra bambini, gli educatori e i genitori possono facilitare l’apprendimento da tali situazioni seguendo alcuni criteri della gestione dei conflitti:

la neutralità empatica, cioè evitare di cercare il colpevole quindi sospensione del giudizio;
la decantazione narrativa, cioè dare la possibilità di spiegare i fatti (anche attraverso, per i bimbi dopo i 3 anni, il disegno o la scrittura) il che stimola a trovare accordi;
i rituali, cioè momenti di riconciliazione anche in gruppo, in cui si riallacciano i legami interrotti attraverso una comunicazione simbolica (facciamo la pace con una filastrocca, es: “mannaggia la diavoletto che ci ha fatto litigar…”).
I litigi e i conflitti sono densi di emozioni ma, proprio perché i bambini non hanno tutti gli strumenti della verbalizzazione, devono essere guidati al riconoscimento di tali emozioni, tra tutte la rabbia, per poterle affrontare creativamente.

Uno strumento efficace di educazione emotiva, che consente di gestire la rabbia e affrontare il conflitto è Il cestino della rabbia, un rituale collettivo che permette ai bambini di avere a disposizione uno spazio-tempo in cui scaricare la rabbia sia simbolicamente che fisicamente (si crea un contenitore dove i bambini, dopo aver disegnato o scritto su un foglio la rabbia, possono gettarla via con il consenso del gruppo e condividere le emozioni provate).

Uno strumento molto efficace con bambini di 2-3 anni è invece la lettura collettiva di libri illustrati sul tema della rabbia e del conflitto, attraverso la quale si facilità la condivisione di esperienze, il riconoscimento e la verbalizzazione delle emozioni (es: “Che rabbia!”, “Il litigio” di Babalibri).

 

Bibliografia

  • Daniele Novara “Litigare per crescere – proposte per la prima infanzia”, Edizioni Erickson, Trento 2010
  • Daniele Novara “Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti”, Bur Rizzoli, Milano 2013
  • www.cppp.it