Dormi Bambino, Dormi Tesoro

 

Sul tema del sonno dei bambini ognuno può dire la sua: per esperienza diretta da genitore sui propri figli, perché si sono fatti degli studi specialistici e si conosce il funzionamento fisiologico, perché si sono raccolte testimonianze o letti articoli al riguardo, ecc. Una cosa che però non si può dire molto facilmente è come il sonno e l’addormentamento viene vissuto dal bambino e dai genitori. Sensi di colpa, rabbia, frustrazione, sentimenti di incapacità a gestire un vissuto che sembra tanto naturale, pervadono i genitori e i bambini ogni sera, al momento di andare al letto.

Cercheremo di fare un po’ di chiarezza sulle caratteristiche del sonno dei bambini e degli adulti, senza dare però delle “ricette” che vadano bene per tutti ma dando dei consigli utili alla maggioranza, ricordando che in caso di difficoltà la cosa migliore è parlarne con un esperto (pediatra, medico di base, psicologo).

 

Il ritmo sonno-veglia e le caratteristiche del sonno dei bambini

Il sonno dei bambini è molto diverso da quello degli adulti: il sonno, infatti, è un fenomeno complesso, che si evolve e si modifica durante la crescita.

Un individuo adulto dorme mediamente 8 ore ogni notte alternando due diverse fasi di sonno: la fase NREM, non legata al movimento degli occhi durante il sonno, ha una durata complessiva di circa 90 minuti e si compone a sua volta di 4 diversi momenti (addormentamento, sonno leggero, sonno profondo e molto profondo) e la fase REM, in cui invece gli occhi della persona si muovono velocemente, l'attività celebrale diventa più intensa ed il soggetto sogna. (La fase REM può durare all'inizio anche solo 10 minuti, l'ultima può durare anche 1 ora). Queste due fasi si alternano dalle 4 alle 6 volte ogni notte con cicli con una durata piuttosto regolare.

A differenza degli adulti, un bambino nel primo mese di vita si sveglia mediamente ogni 3-4 ore; dal primo a quarto mese di vita il neonato inizia ad abituarsi ai cicli buio-luce, per cui i suoi cicli iniziano a manifestarsi in maniera più regolare di notte; a sei mesi il bambino diventa più regolare e dorme circa 6 ore a notte svegliandosi una sola volta per mangiare. A 9 mesi si assiste ad un incremento dei risvegli notturni, ma ciò che è importante è che, col passare dei mesi, si assiste ad una diminuzione costante delle ore di sonno.

Gli studi di epidemiologia ci dicono che a nove mesi l’84% dei bambini si sveglia almeno una volta; il massimo del numero di risvegli per ogni notte si ha a due anni.

Nei primi mesi di vita un bambino trascorre circa il 70-80% del tempo dormendo, la durata totale del sonno in una giornata resta piuttosto alta: si calcolano circa 15-20 ore al giorno per i neonati contro le 5-6 ore degli anziani.

I bambini dormono di più principalmente perché il sonno influisce sulla loro crescita, in particolare: favorendo lo sviluppo cerebrale (soprattutto il sonno nella fase REM, cioè quello più leggero); consolidando la memoria e tutto ciò che il piccolo apprende durante il giorno; stimolando la secrezione dell’ormone della crescita; rafforzando il sistema immunitario, consentendo all’organismo di rallentare e al cervello di eliminare le tossine accumulate durante la veglia.
Possiamo quindi comprendere quanto sia importante lasciar dormire il bambino per tutto il tempo che gli è necessario, cosicché impari a gestire autonomamente i propri ritmi.

 

I pediatri di famiglia appartenenti all’Associazione Culturale Pediatri delle regioni Puglia e Basilicata hanno voluto studiare il sonno dei bambini che frequentano i loro ambulatori, e così 36 pediatri hanno arruolato per una ricerca, in occasione dei bilanci di salute, tra gennaio 2004 e gennaio 2007, 1438 bambini. Ai genitori fu richiesto di compilare un questionario sulle abitudini del sonno del bambino e su eventuali problemi riscontrati, comprendente anche alcune informazioni generali (presenza di patologie, composizione del nucleo familiare, tipo di allattamento in corso, dati anagrafici e socio-culturali) e un diario del sonno per 7 giorni.

Infine si chiedeva se il bambino dormiva nel lettone o nel lettino, in camera con i genitori o da solo. Alle madri veniva richiesta un’opinione sul sonno del loro bambino: se cioè fosse normale o se, a loro giudizio, ci fossero dei problemi. Le madri dovevano dire anche di che cosa il bambino avesse bisogno per addormentarsi, o riaddormentarsi dopo i risvegli notturni, e quanto tempo ci metteva per addormentarsi alla sera.

Si tratta probabilmente della più vasta indagine condotta in Italia con metodi scientifici da cui sono emersi i seguenti risultati:

  • Il 72% dei bambini tra un mese e tre anni ha bisogno della presenza del genitore per addormentarsi, la maggior parte di loro (67%) richiede proprio il contatto fisico
  • tra un mese e tre anni l’86% dei bambini dorme insieme ai genitori (in camera o nel lettone tutte le notti o qualche notte); ma a tre anni 1 su 5 già dorme da solo nella sua cameretta
  • per quanto riguarda invece il lettone, a un mese solo l’11% dei bambini si insedia stabilmente, percentuale che cresce con il tempo, tanto che a tre anni la percentuale è triplicata;
  • già dopo i cinque anni sono pochissimi i bambini che dormono nel lettone, come ha dimostrato uno studio italiano che ha indagato le abitudini del sonno di bambini toscani fino ai 10 anni, fatta dai pediatri ACP toscani e coordinato dal professore Rapisardi.

L’esame di questi dati mostra la naturale e spontanea evoluzione delle abitudini del sonno dei bambini verso una progressiva autonomia. I problemi di sonno riferiti dalle madri sono molto pochi: si lamenta del sonno dei figli solo il 9% a tre anni, anche se c’è una punta del 25% di mamme di bambini di età compresa fra 12 e 18 mesi disturbate nel sonno, un’età che corrisponde in pieno al periodo dell’ansia da separazione. Con il decrescere di questo fenomeno diminuisce nel giro di un anno, rapidamente e spontaneamente, il numero di mamme che lamentano disturbi del sonno a causa dei figli. Questi dati mostrano la naturale e spontanea evoluzione delle abitudini del sonno dei bambini verso una progressiva autonomizzazione.

 

Risvegli notturni e disturbi del sonno

A noi adulti capita spesso di svegliarci durante la notte tra un ciclo di sonno e l’altro. Spesso non ce ne accorgiamo neppure o semplicemente ci giriamo dall’altra parte per iniziare un nuovo ciclo. Ai bambini accade la stessa cosa ma con maggiore frequenza (i loro cicli sono più brevi, dunque si parla di “micro-risvegli”) ma spesso non sono abituati a riaddormentarsi da soli e quindi richiamano l’adulto per essere supportati: tutto ciò è assolutamente normale, dipende dal fatto che i piccoli si spaventano per la lontananza della figura di accudimento, un meccanismo

presente anche nel mondo animale e che costituisce una prima difesa dei cuccioli dall’aggressione dei predatori.

Nel caso in cui l’incidenza dei risvegli tra un ciclo di sonno e l’altro aumenta, si parla di sleep regression, un fenomeno che può verificarsi maggiormente nei seguenti momenti:

  • Aumento dell’autonomia (quando ad esempio il bambino inizia a gattonare o a camminare) e scatti nello sviluppo psicomotorio
  • Ansia da separazione (intorno ai 18-24 mesi)
  • Primi dentini
  • Inserimento al nido o all’asilo
  • Arrivo di fratellini o sorelline
  • Ripresa lavorativa della mamma
  • Tensioni familiari
  • Cambiamento di routine familiari

La SINPIA, società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, afferma che il 25% dei bambini al di sotto dei 5 anni soffre di disturbi del sonno, mentre dopo i 6 anni la percentuale scende al 10-12% circa. In generale nel mondo occidentale, rispetto a cento anni fa, i bambini dormono mediamente 2 ore in meno: il ritmo sonno-veglia naturale del bambino è stato influenzato dalle nuove esigenze sociali (ritmi frenetici, aumento di luci artificiali, utilizzo sempre più precoce di strumenti elettronici).

Nella prima infanzia sono più frequenti le difficoltà di addormentamento, i risvegli frequenti (nel lattante spesso in correlazioni con i pasti o con le coliche gassose) e i comportamenti anomali nel sonno (pavor notturno o risvegli confusionali). In età scolare, invece, si osservano maggiormente la paura dell’addormentamento e disturbi del movimento correlati al sonno. Negli adolescenti, infine, i disturbi del sonno sono frequentemente conseguenza di stili di vita e abitudini scorrette, in primo luogo l’inversione del ritmo sonno-veglia e l’utilizzo di schermi luminosi in prossimità dell’addormentamento.

Nel bambino, tra le conseguenze più gravi della carenza di sonno, troviamo disturbi di tipo cognitivo-comportamentale (calo del rendimento scolastico, disturbi di apprendimento, ridotta memoria di lavoro), problemi legati alla sonnolenza diurna (disattenzione, traumi accidentali) e l’obesità; nell’adolescente il disturbo del sonno può portare ad abuso di sostanze.

Studi italiani al riguardo hanno fatto emergere dati preoccupanti rispetto ai rischi a lungo termine che corrono i bambini con problemi di sonno, fra cui obesità, basso rendimento scolastico, iperattività, ma anche alti livelli di ansia e scarse autonomie in età scolare e pre-adolescenziale (Progetto “Ci piace sognare” a cura di SIPPS – Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale e SICuPP – Società Italiana delle Cure Primarie Pediatriche, 2016).

Da considerare anche il fatto che i problemi di sonno dei bambini hanno ripercussioni su tutta la famiglia determinando una scarsa salute mentale e fisica dei genitori, causando notevole stress familiare e favorendo lo sviluppo de una depressione materna.

 

Modelli teorici  e consigli pratici

Si riesce ad addormentarsi solo se ci sente protetti e in luogo sicuro, e il luogo più sicuro per un bambino molto piccolo è vicino alla propria madre.

Proteste per andare a letto, lungo tempo per addormentarsi, risvegli notturni con pianti e tentativi di raggiungere la mamma nel lettone. Questi disturbi sono poco frequenti presso i popoli che hanno mantenuto l’abitudine tradizionale di far dormire presso di sé i bambini e sono evidentemente una reazione a queste nuove modalità di accudimento.

Molti studiosi hanno “idealizzato” modelli e studi relativi alle differenti modalità di gestione e messa a letto dei bambini.

Da qualche decennio è invalso l’uso di abituare i bambini a dormire da soli, in un letto separato o in un’altra stanza, e a fare a meno anche della presenza dei genitori nel momento dell’addormentamento, imparando molto presto ad auto-consolarsi con l’aiuto di ciucci, pupazzi, copertine o altri oggetti sostitutivi, che suppliscono alla mancanza della mamma; l’uso di questi oggetti presso i popoli che praticano il cosliping è praticamente sconosciuto.

Negli Stati Uniti, sin dagli anni ’70, il dottor Ferber prima e il professor Brazelton poi, avevano promosso questa modalità di accudimento attraverso libri divulgativi diretti ai genitori, libri che hanno trovato un largo seguito fino ai giorni nostri; questa teoria è stata rilanciata dal dottor Estivill, che, in un libro pubblicato nei primi anni ’90, sostiene che fin dal terzo mese, e possibilmente anche da prima, il bambino deve essere messo a dormire nella sua cameretta e abituato ad auto-consolarsi, anche a costo di spendere molte lacrime. Parallelamente alla diffusione di queste metodologie nel mondo occidentale si sono moltiplicati i disturbi di sonno nell’infanzia, in alcuni Paesi è aumentato anche l’uso di farmaci per curare l’insonnia dei bambini.

L’aumento dei disturbi del sonno sarebbe, secondo alcuni, effetto diretto di una insufficiente educazione al sonno e all’autonomia da parte di genitori deboli, sopraffatti da bambini tiranni. Sarebbe proprio il dormire insieme, cui spesso i genitori cedono per evitare di far piangere i propri figli, la vera causa dei disturbi del sonno.

Secondo altri l’aumento dei disturbi del sonno dei bambini sia dovuto a pratiche culturali che fanno a pugni con la biologia e non rispettano i tempi dello sviluppo naturale. La separazione dalla madre, o dalla figura di accudimento, è infatti del tutto innaturale perché generatrice di ansie, proteste, risvegli e richieste di avvicinamento. Soprattutto per i bambini molto piccoli, tra gli uno e i tre anni, essere separati dalla mamma genera un’intrattenibile e intensa sensazione di ansia, determinata biologicamente e presente anche in altri animali, denominata ansia da separazione.

La Società Italiana di Pediatria elenca 10 regole da seguire per ottenere un corretto sonno dei bambini e dei loro genitori:

  1. Rispettare l’orario della nanna tutte le sere
  2. Far dormire il bambino sempre nello stesso ambiente
  3. Dissociare la fare di alimentazione da quella dell’addormentamento
  4. Rispettare l’orario dei pasti durante il giorno
  5. Mai usare tablet o altri dispositivi elettronici dopo cena
  6. Non dare troppo cibo o acqua prima di dormire
  7. Regolare con attenzione l’esposizione alla luce
  8. Evitare sostanze eccitanti dopo le 16
  9. Favorire un’alimentazione equilibrata
  10. No ai bambini nel lettone

 

Per rendere il momento della nanna più facile non solo per i piccoli ma anche per i genitori, alcuni autori suggeriscono altri dei consigli pratici:

  1. Accettiamo che nei primi mesi di vita possano svegliarci. Come detto, non si tratta di un capriccio né di un vostro errore di gestione: il sonno del bambino richiede tempo per autoregolarsi!
  2. Creiamo un rituale serale che lo accompagni alla nanna. Leggere una favola, cantare una ninna nanna, insomma una routine o un insieme di attività che si ripetono quotidianamente prima di andare a dormire e che hanno la funzione di prepararlo a ciò che accadrà a breve.
  3. Non aspettiamo che sia esausto per metterlo a letto. Un bambino molto stanco è più irritabile e nervoso e quindi più difficile da far addormentare. È quindi preferibile evitare giochi troppo turbolenti o eccitanti nelle due ore che precedono il sonno.
  4. Mettiamolo a nanna dove dovrà passare la notte. Spesso i bambini vengono fatti addormentare sul divano o nel lettone e poi spostati nel loro lettino, e questo può confonderli: svegliandosi di notte in un luogo diverso da quello in cui si sono addormentati, potrebbero sentirsi spaventati e spaesati, e tutto ciò renderà più difficile il riaddormentamento.
  5. Osserviamolo nella quotidianità e trascorriamo del tempo con lui. A tal proposito, eventuali difficoltà e problemi del sonno ci daranno molte informazioni sul modo in cui vive. Consideriamo anche che più il bimbo passerà del tempo con mamma e papà durante il giorno, più sarà appagato sotto questo punto di vista e meno soffrirà il “distacco” dovuto all’addormentamento.

 

E quindi? Proviamo a concludere

Nel nostro inconscio e nella letteratura il sonno e la morte sono collegati, ci sono molte analogie tra loro: il sonno suscita spesso una sensazione di perdita che nella forma più estrema diventa paura della morte.

“Quando ci si abbandona al sonno si entra in un tempo o in uno spazio su cui non si ha molto controllo. È una condizione di isolamento. Per alcuni rappresenta un porto tranquillo, intimo, pieno di sogni piacevoli. Per altri è un mondo tempestoso, popolato da incubi. Per i più è un misto tra le due cose. Ma non sappiamo in anticipo come sarà il nostro sonno” (A. Phillips).

Molti genitori hanno paura del sonno, soprattutto nei primissimi giorni. Il modo con cui i genitori affrontano il momento del sonno sarà fortemente influenzato da come essi stessi affrontano l’abbandono: da separazioni difficili del passato o da fattori più quotidiani come il dover separarsi tutto il giorno per lavoro. Tutti questi fattori influenzano il modo con cui i genitori presentano il sonno al bambino. La convinzione che il sonno sia un luogo piacevole e tranquillo, uno spazio sicuro nella normale giornata, magari accompagnato da una serie di gesti abituali prima e dopo, contribuirà a far apparire il sonno come un momento confortevole per il bambino, integrato nella esperienza quotidiana. Il bambino lasciato nella culla escogita modi per addormentarsi da solo e può godere di questo tempo privato: anche il sonno è un momento in cui il bambino può cominciare a formarsi risorse interiori.

Alcuni bambini trovano conforto da soli (succhiare il pollice, toccare la coperta, mettersi in una posizione particolare), altri nelle proposte dei genitori (ascoltare musica, farsi le coccole, leggere un libro). Alcuni gesti abitudinari possono diventare uno schema riconoscibile, diventare una routine per il bambino che si abituerà alla sequenza familiare e rassicurante. Il momento dell’addormentamento è una fase cruciale perché rappresenta un momento di distacco dal mondo esterno e quindi anche dai genitori (sia che i bambini dormano nel lettino che nel lettone con i genitori). Può essere utile in questa fase un rituale serale, rassicurante ma flessibile, pronto ad essere modificato in base alle esigenze, perché non è quel particolare libricino o quella sequenza di coccole a conciliare il sonno, ma la presenza rassicurante del genitore e soprattutto il bambino impara che alla fine del sonno mamma e papà saranno lì.

E’ sempre pericoloso semplificare un problema di sonno riportato da una famiglia, riducendolo solo alle abitudini scorrette che si rilevano perché in questo modo si rischia di colpevolizzare i genitori perché non mettono in atto i comportamenti giusti per far addormentare il proprio bambino.

Non si tratta sempre di cattive abitudini ma a volte si innescano delle dinamiche relazionali difficili da gestire per i genitori, oltre che delle dinamiche di coppia che possono influenzare il problema di sonno del bambino. Anche seguire alla lettera le regole d’oro sopra elencate non garantisce un corretto approccio all’addormentamento e al sonno privo di risvegli, anche oltre l’età in cui il sonno dei bambini è diverso da quello degli adulti, proprio perché il sonno può essere influenzato da altri fattori.

Quando il bambino dorme ha bisogno di sentirsi al sicuro e, perché ciò accada, ha bisogno di sentire che le persone che si prendono cura di lui siano sempre disponibili. Quando la mamma risponde al bisogno del bambino, il piccolo fa esperienza di un altro di cui fidarsi e di un sé in grado di attivare l’altro attraverso i sui richiami, le sue espressioni vocali, facciali, affettive.

I bambini hanno un sonno tranquillo quando possono sperimentare durante tutta la giornata genitori che si prendono cura di loro, che si sintonizzano con i loro bisogni fisiologici ed emotivi.

 

Riferimenti bibliografici

  • Brazelton, J. D. Sparrow “Il tuo bambino e…il sonno. Una guida autorevole per aiutare vostro figlio a dormire” 2003, Raffello Cortina
  • Lanzini “Il sonno dei bambini, dalla nascita ai primi anni”. www.uppa.it
  • Mattina, a cura di “Intorno alla nascita. L’esperienza di diventare genitori”. www.ordinepsicologilazio.it
  • A.M. Moschetti “Il sonno dei bambini: uno studio ne rivela i segreti”. www.uppa.it
  • A.M. Moschetti, M.L. Tortorella “Quando il bambino non dorme”. www.uppa.it
  • Phillips “I no che aiutano acrescere” 1999, Feltrinelli
  • Società Italiana di Pediatria “Un bambino su quattro soffre di disturbi del sonno. Le 10 regole d’oro per far dormire i piccoli, i più grandi (e anche mamma e papà)” 2019. www.sip.it

Piccoli Campioni Crescono

(Dott.ssa Laura Ricci)

 

Lo sviluppo motorio è importantissimo nei primi anni di vita di un bambino: il corpo è lo strumento principale con cui esplora l’ambiente che lo circonda ed apprende. Il movimento è il punto di partenza per lo sviluppo delle funzioni mentali fin dalle prime fasi di vita. Azioni e movimenti hanno un ruolo centrale nei processi di rappresentazione mentale, processi fondamentali anche per lo sviluppo del linguaggio.

Verso i 3-4 anni si assiste all’affinamento delle abilità motorie e all’apparire della “preferenza di lato” che, prima dei 7 anni, diverrà la dominanza laterale definitiva, che contribuirà in maniera fattiva a maturare la capacità di mantenere l’equilibrio.

Tra i 2 e i 6 anni i tessuti muscolari aumentano di peso e volume: forza e velocità aumentano considerevolmente, la coordinazione dei movimenti si affina ma è più lenta a definirsi, il battito cardiaco diventa più stabile e più lento, la pressione del sangue aumenta e la respirazione diventa più profonda e meno rapida. Tutto ciò rende il bambino in età prescolare più resistente allo sforzo fisico, gli consente una vasta gamma di movimenti e fa sì che sia più consapevole della propria forza e controlli maggiormente il proprio corpo.

Osservare la qualità del movimento di un bambino consente di valutare il buon funzionamento del sistema cognitivo e neuro-muscolare, così come le competenze relazionali ed emotive. Se lo sviluppo si dovesse presentare disarmonico durante lo sviluppo è quindi necessario prestare attenzione alla presenza di eventuali caratteristiche “disarmoniche” e sapere di avere la possibilità di chiedere una valutazione ad un esperto del settore (psicomotricista).

 

Giocare allo sport e allenarsi alla vita

Che esista una correlazione positiva tra l’aumento della attività motoria, l’accelerazione dello sviluppo psicomotorio e il miglioramento delle funzioni intellettuali è un dato confermato da molti studi di settore.

Il numero di cellule e nuclei muscolari presenti nell’adulto è determinato dalla loro moltiplicazione in età infantile, in riferimento alla attività fisica praticata.

Per ogni fascia di età l’attività fisica proposta deve essere proporzionata alla fase di sviluppo fisico e psicologico del bambino: nella prima infanzia qualsiasi attività motoria deve essere proposta in una dimensione di gioco che preveda un impegno graduale e progressivo.

Il gioco contribuisce allo sviluppo delle strutture nervose, in particolare alla corteccia frontale che è deputata alla valutazione delle conseguenze delle nostre azioni, al rispetto delle regole, al senso di colpa, alla generosità, al senso di solidarietà e amicizia. Giocando i bambini imparano a conoscere le potenzialità del proprio corpo. (Oliverio, Oliverio Ferraris 2004)

Il bambino impara a confrontarsi attraverso il gioco; lo sport è un gioco ritualizzato.

Anche il Ministero della Pubblica Istruzione afferma (con la direttiva n°17 del 9/2/2007): “L’attività motoria e la pratica sportiva, attraverso una corretta azione interdisciplinare, contribuiscono allo sviluppo e alla promozione della cultura della legalità attraverso la pratica del rispetto dell’altro, delle regole e del fair play. Lo sport scolastico, infatti, rappresenta una significativa fonte di esperienza per tutti i giovani, capace di costruire uno “Stile di vita salutare” permanente, di favorire una maggiore integrazione sociale ed apertura ai rapporti interpersonali, di assumere ruoli e responsabilità precise”.

Ma lo “sport scolastico” ha, in effetti, un ruolo di secondo piano rispetto alle altre discipline curricolari e, d’altra parte, i tempi lavorativi di molti genitori non consentono di avere a disposizione molto tempo condiviso in famiglia, ne consegue l’esigenza di impegnare i figli in diverse attività pomeridiane; ecco allora che i bambini vengono inseriti in contesti sportivi privati sempre più precocemente: a 3 o 4 anni seguono già uno sport più volte a settimana. Alcuni genitori propongono uno sport ai propri figli come sano passatempo, altri come pratica sportiva da seguire a tutti i costi, altri ancora si affidano in toto agli allenatori che incontrano: inizia allora il percorso agonistico (o di avviamento all’agonismo), più o meno desiderato dai bambini stessi.

 

Campioni si nasce o si diventa?

“Agonismo significa emergere con fatica e non diventare campioni. Ottime 2 o 3 ore di palestra a settimana. Poca competizione, grande beneficio fisico” (G. Bollea)

Il desiderio di primeggiare, di assumere un ruolo, di farsi valere è comune a tutti ma deve essere in qualche modo conosciuto e controllato. L’agonismo è una caratteristica propria dell’attività sportiva ma non deve essere confuso con l’antagonismo, cioè vincere ad ogni costo: l’agonismo deve essere affrontato come esperienza di crescita individuale e come consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti, cercando di vivere l’attività sportiva senza ansia o stress.

E’ sempre più frequente che già a partire dai 7/8 anni la pratica sportiva diventi un’attività agonistica, per soddisfare le aspettative dei genitori, degli allenatori o delle società sportive: un bambino a quella età ha una grande resistenza fisica ed energie inesauribili ma questo non basta a fare di loro dei piccoli campioni. Servono anche molto impegno e grandi responsabilità che non sempre hanno e non è neanche giusto chiedere per evitare che ne escano sfiniti senza la passione necessaria e il giusto nutrimento per il fisico e per l’anima.

Ancora a questa età si dovrebbe parlare di gioco sportivo dove i bambini lavorano divertendosi, dove si concede spazio all’apprendimento tecnico e delle regole attraverso delle mini-competizioni di squadra o individuali.

Rispetto alla scelta dello sport da praticare bisognerebbe seguire le naturali inclinazioni del bambino e lasciare che sia lui a scegliere, dopo aver sperimentato diverse discipline sportive, lo sport in cui specializzarsi. Una specializzazione precoce è di solito dannosa perché comporta un notevole carico di ansia e superallenamento che conduce quasi sempre all’abbandono. Lo sport scelto deve valorizzare le caratteristiche individuali e le qualità fisiche e costituzionali del bambino.

L’attività agonistica, quando segue la passione del ragazzo, è appropriata a partire dai 12 anni: si devono prediligere lavori a carico naturale o con piccoli attrezzi, attività basate sull’equilibrio e la coordinazione, senza sovraccaricare le articolazioni e la colonna vertebrale. L’agonismo prepara i giovani, oltre che fisicamente, anche come persona abituandoli all’impegno, alla costanza, alla conoscenza dei propri limiti e (eventualmente) di come superarli, li aiuta a canalizzare le energie in eccesso tipiche dell’età e a scaricare la tensione fisica in modo positivo, alimenta il senso di appartenenza ad un gruppo, una squadra o una federazione che è un aspetto centrale nell’adolescenza. In questo periodo i ragazzi hanno bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di assumere un ruolo all’interno del gruppo dei pari e se l’ambiente sportivo è accogliente e familiare faciliterà il proseguimento della “carriera sportiva”.

Il successo sportivo dipende da molti fattori (genetici, psicologici, ambientali, familiari e sociali) e non tutti i ragazzi, a prescindere dall’impegno dimostrato, diventeranno dei campioni ma sicuramente con un ambiente familiare e sportivo facilitante apprenderanno i benefici dello sport, a livello fisico ma anche come arricchimento nell’apprendimento e negli studi.

Praticare uno sport a livello agonistico comporta inevitabilmente delle rinunce da parte dei ragazzi, un impegno notevole e un forte senso del dovere (allenarsi per molte ore a settimana trascurando le comuni attività dei coetanei e mantenere un buon rendimento scolastico). Nella riuscita e nel mantenere alta la motivazione dei ragazzi hanno un ruolo importantissimo i genitori: devono sostenere ma non esasperare l’agonismo, guidarli nel successo e nell’insuccesso sportivo così come li guidano e li sostengono nel rendimento scolastico, non manifestare aspettative troppo elevate, partecipare in maniera giocosa, dare il giusto peso alla sconfitta e alla vittoria.

E’ importante, da parte di genitori ed allenatori, fornire giusti rinforzi rispetto all’impegno dimostrato ed evitare un eccessivo carico di allenamento e di agonismo e, soprattutto, cogliere in tempo le manifestazioni che possono condurre alla perdita di interesse, all’eccessivo carico di responsabilità e aspettative: i più frequenti segnali di disagio sono l’ansia, l’irritabilità, i disturbi del sonno. Ogni attività se portata all’estremo conduce ad uno stato di disagio e allora il miglior lavoro che istruttori e genitori possono fare insieme è lasciare che i giovani campioni siano loro stessi e ce la mettano tutta senza pressioni, lasciandogli dimostrare il loro sapere, saper fare, saper essere.

 

CARTA DEI DIRITTI DEL BAMBINO NELLO SPORT

1. Diritto di divertirsi e giocare come un bambino

2. Diritto di fare lo sport

3. Diritto di beneficiare di un ambiente sano

4. Diritto di essere trattato con dignità

5. Diritto di essere allenato e circondato da persone qualificate

6. Diritto di seguire allenamenti adeguati ai propri ritmi

7. Diritto di misurarsi con giovani che abbiano la stessa probabilità di successo

8. Diritto di partecipare a gare adeguate

9. Diritto di praticare il suo sport nella massima sicurezza

10. Diritto di avere tempi di riposo

11. Diritto di non essere un campione

 

Riferimenti bibliografici

  • Carta dei diritti del bambino nello sport, UNESCO, Service des Loisirs, Geneve,1992
  • Adelia Lucattini “Sport bambini: l’agonismo fa male?”, D-Repubblica.it-Benessere 2013
  • Alberto Oliverio, Anna Oliverio Ferraris “Le età della mente”, Rizzoli 2004
  • Franco Panizon “Bambini e sport agonistico”, www.uppa.it

Non si gioca con il cibo!

Quante volte genitori, nonni, insegnati di ogni livello, ci hanno detto da piccoli che non si gioca con il cibo? E quante volte noi stessi, da genitori ed educatori, di fronte a piccole pesti che manipolano, tirano, spalmano il cibo, preparato per loro con amore, dedizione e fatica, ci siamo ritrovati a dire la stessa cosa? Il cibo non si spreca, su questo siamo tutti d’accordo, è questo il messaggio educativo che vogliamo trasmettere ai nostri bambini ed il nostro compito è anche quello di insegnare ai bambini le buone maniere a tavola.

Si può, anzi si deve come vedremo in seguito, giocare con il cibo ma di certo non si gioca mangiando e non si portano i giochi a tavola: distrarre i bambini da ciò che stanno mangiando non gli consente di capire il gusto, il colore, l’odore di ciò che mangiano e soprattutto non gli permette di concentrarsi sul proprio senso di fame e sazietà (prerequisito importante per lo sviluppo di un sano rapporto con il cibo e la prevenzione di futuri comportamenti alimentari errati).

Il cibo stimola tutti i nostri sensi: può essere toccato, annusato, osservato e persino ascoltato (pensiamo ai pop-corn), oltre che essere assaggiato. Per godere del cibo in tutti i suoi aspetti e per poter giocare con esso si possono creare tempi e spazi adeguati e organizzati, come avviene al nido famiglia “Il Mondo di Laura”: attività e spazi protetti in cui il bambino può esprimersi e sperimentare, libero di “trasgredire” per un po’ le regole dello stare a tavola. All’interno di un percorso di educazione alimentare che inizia dal facilitare l’allattamento al seno per le mamme lavoratrici e che prosegue per tutto il percorso che i bambini faranno al nido, vengono pianificate delle attività da svolgere insieme ai bambini:

MERENDA CON LA FRUTTA: nel nostro nido famiglia la merenda del mattino è sempre a base di frutta di stagione che viene sbucciata e tagliata insieme ai bambini: il piatto con i pezzetti di frutta viene  passato da ogni bambino al compagno, rispettando i turni. Tale attività ha lo scopo di far conoscere ai bambini la stagionalità degli alimenti e le loro proprietà facendoli partecipare attivamente alla preparazione: sbucciare i mandarini, spremere le arance con lo spremiagrumi.

I TRAVASI: l’obiettivo è quello di esercitare la motricità fine attraverso l’utilizzo di vari materiali e contenitori di diverse misure. Attraverso questa attività i bambini giocano con diversi alimenti e ne conoscono le proprietà fisiche (farine, pasta, riso, legumi);

LABORATORI CREATIVI: giocare con frutta e verdura aiuta i bambini a conoscerla e li stimola ad assaggiarla. Una ricerca della De Monfort University Leicester, condotta su 62 bambini tra i 3 e i 4 anni frequentanti il nido, dimostra che i bambini a cui è stata data la possibilità di usare ortaggi e frutta sono molto più interessati ad assaggiarli (il primo gruppo poteva usare il cibo per riprodurre dei disegni e giocare, il secondo gruppo aveva ricevuto oggetti comuni per giocare, il terzo aveva a disposizione frutta e verdura ma solo i ricercatori potevano manipolarla).

In ogni stagione vengono proposti laboratori di manipolazione dove frutta e verdura possono essere toccate, annusate, schiacciate e usate per dipingere alla maniera di Munari, con l’obiettivo di conoscere le proprietà degli alimenti ma anche di facilitare lo sviluppo del pensiero divergente, ossia la capacità utilizzare un oggetto comune in maniera creativa.

LABORATORI DI CUCINA: manipolare, impastare, dosare e mescolare. In questa attività i bambini vengono coinvolti in tutte le fasi di preparazione  di un piatto (pizza, dolci, pasta all’uovo) ed imparano a conoscere gli ingredienti. Il risultato finale può essere una gustosa merenda da condividere insieme ai compagni o un dolce regalo per mamma e papà, orgogliosi delle proprie capacità e dei risultati ottenuti.

LETTURE E FILASTROCCHE: si può giocare con il cibo anche in assenza di cibo vero: inventare o leggere storie, canzoni o filastrocche che aiutino il bambino a conoscere i diversi alimenti e le loro proprietà.

 

“Mangio di tutto”

Pollo, patate, spinaci e prosciutto

Mi sento bene se mangio di tutto

Occhio di falco con le vitamine

Forza di tigre con le proteine

Latte e formaggio fan le ossa più dure

Pancia più sveglia con fibre e verdure

Miele, insalata, bistecca e poi soia

Mangio di tutto e niente mi annoia

 

ORTO: in primavera ai bambini viene proposto di coltivare piccole piante aromatiche, frutta di stagione e piccoli ortaggi (basilico, rucola, zucchine, fragole) all’interno di vasi, bottiglie e cassette di legno riciclate. Per i bambini vedere le piante coltivate da loro  che crescono e danno frutti è entusiasmante: li rende fieri di se stessi e del loro lavoro, aumentando la loro autostima e la voglia di fare. Inoltre è molto eccitante mangiare i prodotti del proprio orto e questo invoglia a mangiare la frutta e la verdura, che solitamente i bambini non amano.

Coltivare l'orto a scuola da modo ai bambini di sviluppare un sentimento di appartenenza al gruppo e di reciproco aiuto: facilita il senso di solidarietà tra bambini e la sensibilità verso qualcosa di "piccolo" che va aiutato a crescere, proprio come loro, nel tempo.

Anche a casa insieme a mamma e papà si può giocare con il cibo, prendendo spunto dalle attività proposte al nido e magari preparando in maniera allegra e creativa gustose pietanze da condividere.

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BIBLIOGRAFIA E CONSIGLI DI LETTURE

  • Paola Medde “I bambini e il cibo”, EPC editore.
  • Bruno Munari “Rose nell’insalata”, Corraini Editore.
  • AA.VV. “Tutti a tavola. Alla scoperta del cibo” Allegre finestrelle. AMZ Editore.
  • Eric Carle “Il bruco mai sazio”, Mondadori.

Mi leggi una storia?

Articolo di Laura Ricci

 

"Un bambino impara a leggere per la prima volta quando viene preso in braccio e gli viene letta una favola"

(Maryanne Wolf "Proust e il calamaro - Storia e scienza del cervello che legge").

 

Intuitivamente l’essere umano ha sempre compreso che parlare, raccontare, cantare ai bambini fin dal grembo materno contribuisce al loro sviluppo psichico in modo molto significativo; purtroppo il cambiamento dei costumi e dei modi di vivere delle famiglie attualmente ha ridotto il tempo del raccontare e del leggere ai bambini.

 

Perche leggere

La stimolazione e il senso di protezione che genera nel bambino il sentirsi accanto un adulto che legge e racconta storie già dal primo anno di vita è impareggiabile. Il precoce e quotidiano contatto con i libri e la lettura mediati da mamma e papà favorisce il futuro successo scolastico dei bambini.

È noto che la lettura ha effetti rilevanti per crescita del bambino: l’apprendimento, l’attaccamento, l’autonomia, l’emotività e i sentimenti, la fantasia-creatività, il linguaggio, la memoria, la moralità e la spiritualità, la socializzazione, lo sviluppo mentale.

La lettura ad alta voce rafforza e incrementa le capacità di apprendimento dei bambini, specialmente se questo viene fatto fin dalla tenerissima età. Recenti ricerche dimostrano come il leggere ad alta voce, con una certa continuità, ai bambini in età prescolare abbia una positiva influenza sia dal punto di vista relazionale (relazione adulto bambino), che cognitivo (si sviluppa meglio la comprensione del linguaggio e la capacità di lettura); per di più si consolida nel bambino l’abitudine a leggere.

La lettura permette al bambino di appropriarsi più facilmente della propria lingua, delle sue parole, della sua forma e struttura, inoltre ascoltare significa ordinare mentalmente ciò che si ascolta.

Raccontare e leggere ad alta voce stimola l’immaginazione del bambino: la fantasia e la creatività sono risorse fondamentali per affrontare la realtà dell’esistenza.

 

Il significato della fiaba

La fiaba è un racconto dove eventi insoliti o improbabili (ma che potrebbero capitare a chiunque) colpiscono il protagonista (divario), il quale si trova a dover affrontare l’antagonista (dicotomia buono/cattivo) per poter superare la situazione infausta e poter giungere così al lieto fine.

Tale strumento può essere utilizzato sia con i bambini in diversi contesti, a scuola, nei reparti ospedalieri o per la trattazione di tematiche particolari, ma anche con gli adulti, in particolare in contesti di formazione e apprendimento, soprattutto come crescita personale.
La fiaba svolge un’azione importantissima nei bambini poiché la descrizione dei personaggi di una fiaba e delle loro azioni può accompagnarli nella comprensione di quello che gli accade dentro e che giorno dopo giorno, può contribuire a favorire la loro crescita armonica, in tutti i suoi aspetti (emotivo, affettivo, cognitivo, linguistico, sociale, ecc.).

Negli adulti può essere altrettanto utile ed importante perché attraverso la fiaba, una persona adulta può provare a recuperare significati che non erano stati interamente compresi.

Le fiabe creano e risolvono situazioni di paura, di inadeguatezza, di solitudine, di mancanza di autostima, sconfiggono angosce e fanno svanire conflitti e fantasmi; le fiabe trovano soluzioni miracolose per ogni sofferenza.

La maggior parte di noi cela, tra i suoi segreti, la propria fiaba preferita, fiaba che è spesso paragonabile alla trama della nostra vita, ai nostri desideri ed alle nostre nostalgie.

Le storie raccontate nelle fiabe, spesso ci raccontano le nostre grandi difficoltà e come qualcuno, al nostro posto, riesce a trovare la soluzione.

Attraverso l’identificazione con l’eroe della fiaba, ci viene trasmessa la speranza che i problemi siano risolvibili, che esista sempre la possibilità di un cambiamento.
Così la fiaba ci infonde quel coraggio di cui abbiamo bisogno per non restare ancorati al passato e andare incontro ad un futuro pieno di speranza e allegria.

La fiaba, proprio perché raccontata o letta, permette al bambino di soffermarsi su tutti i punti particolarmente interessanti, richiedendo un’elaborazione personale degli eventi che aiuteranno il bambino a superare i passaggi verso una crescita armonica.

Le favole racchiudono l’idea che la vita sia in realtà più semplice di quanto non la si immagini, o meglio, aiutano a credere che dentro di noi possediamo tutti gli strumenti utili per affrontarla, in particolare quando, inevitabilmente, ci presenta le sue difficoltà, perché crescere è un compito che richiede impegno e tante risorse.

Un’altra importante dimensione della fiaba è la non negazione del “male” e dell’ombra anzi, spesso queste parti vengono fissate in maniera molto forte ed incarnate dai personaggi della storia: questo insegna al bambino che il bene e il male sono due dimensioni della vita e che non si può prendere il bene senza necessariamente venire a contatto con il male. La favola insegna quanto sia seducente ed attraente il “male” poiché questo è sempre rappresentato da qualcuno o qualcosa di molto potente, abituato ad usare i suoi poteri con maniere subdole, (la strega, il drago, l’orco, il serpente).

La fiaba serve proprio a mediare tra impulsi distruttivi e realtà: aiuta il bambino a capire se stesso e a scaricare la rabbia, l’ansia e la distruttività.

Pollicino abbandonato rappresenta il risentimento del bimbo per i genitori che lo lasciano all’asilo, la matrigna cattiva può rappresentare la mamma che si occupa del fratellino o che, in un momento di nervosismo, sgrida il piccolo. Il lupo è invece una proiezione della parte più distruttiva.

Ascoltata dalla voce della mamma, la fiaba autorizza il bambino a provare queste emozioni e a esprimerle, senza aver paura che gli si rivoltino contro, bensì diventano un incentivo al cambiamento e alla crescita del proprio Sé.

In ogni fiaba ci sono tante tipologie di personaggi, in modo che il bambino decida chi vuole essere, anche se alla fine si identifica sempre con l’eroe. Inoltre il lieto fine della fiaba ha un effetto rassicurante e gli aspetti paurosi possono essere superati.

Le fiabe tradizionali sollecitano l’inconscio del bambino, mentre quelle contemporanee parlano dell’io del bambino, alludono ad esperienze concrete: la scuola con il distacco dalla mamma, il rispetto per l’ambiente, la nanna. Inoltre ci sono anche libri che trattano argomenti forti come l’adozione e l’affido familiare, gli abusi, la morte.

Le fiabe ripetono da sempre che crescere e diventare adulti è un’impresa difficile, ma ce la si può fare.

 

Di seguito le indicazioni su come, quando e cosa leggere ai bambini nei primi anni di età del progetto Nati per Leggere.

 

Come leggere, quando leggere

Leggere ad alta voce è piacevole e crea l’abitudine all’ascolto, inoltre aumenta i tempi di attenzione. Ogni momento è favorevole per raccontare e leggere ai propri bambini ed ogni luogo è adatto purché favorisca la disposizione all’ascolto. Si può riservare alla lettura un momento particolare della giornata: prima del sonnellino o della nanna, dopo i pasti, scegliendo dei momenti durante i quali siete entrambi più tranquilli. È importante non insistere se il bimbo non vuole.

 

Come condividere i libri con i bambini

  • scegliere un luogo confortevole dove sedersi
  • recitare o cantare le filastrocche del suo libro preferito
  • tenere in mano il libro in modo che il vostro bambino possa vedere le pagine chiaramente
  • indicargli le figure
  • creare le voci dei personaggi e usare la mimica per raccontare la storia
  • fargli domande: cosa pensi che succederà adesso?
  • fare raccontare la storia dal bambino, ma ricordare che questo accadrà solo verso i 3 anni
  • lasciare scegliere i libri da leggere al bambino
  • rileggergli i suoi libri preferiti anche se lo chiede spesso e questo annoia.

 

Cosa leggere

A 1 mese ed anche prima
Al bambino piacciono le ninne nanne. Vanno tutte bene anche se le inventate voi. Bisogna ricordare che i bimbi amano i rituali quindi va bene anche sempre la stessa.

A 6 mesi
I libri a questa età e almeno fino a 12 mesi devono essere resistenti, grandi, di materiali diversi, con colori vivaci, oggetti e figure familiari.

A 12 mesi
Le figure preferite riguardano azioni familiari (mangiare, dormire, giocare) e piccoli animali, mentre i testi preferiti sono sempre le filastrocche e le rime. Meglio cercare di evitare figure di cose che il bambino ancora non conosce.

A 18 mesi
Completa ed anticipa le frasi del libro. Gli piacciono libri che parlano di animali (leggendo si possono fare versi buffi come quelli degli animali), di bambini, delle cose di ogni giorno, con frasi brevi e semplici.

A 24 mesi
Gli piacciono le storie che danno l’opportunità di identificarsi con i personaggi, che raccontano prove da superare, che fanno ridere. Il bimbo a quest’età finge di leggere le storie alle bambole e ai peluche imitando il comportamento di noi adulti.

A 30 mesi
Gli piacciono storie di bambini della sua età che narrano momenti di vita comune (andare a scuola o dal dottore), di amicizia, di fratelli o sorelle, ma anche libri fantastici, avventurosi. I testi devono essere semplici. Le fiabe tradizionali (e in particolare quelle “del perché” con animali parlanti che spiegano le cose) aiutano anche a proiettare all’esterno le paure e le emozioni che il bambino ha dentro di sé. Al bambino piace scegliere la storia e gli piace anche farsela leggere molte volte. Il bambino a quest’età riesce anche a ripetere la storia che gli è stata letta e reinventarla a suo piacimento.

 

PICCOLI SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

  • Mireille D’Allancé “Che rabbia”, 2000 Babalibri.
  • Mireille D’Allancé “Quando avevo paura del buio”, 2002 Babalibri.
  • Valeri Gorbachev “ Tommaso e i cento lupi cattivi”, 2007 Nord-Sud Edizioni.
  • Janna Crioli “Un nido di filastrocche”, 2005 Sinnos.
  • Eric Battut “Oh, che uovo”, 2007 Ian Falconer.
  • Giusi Quareschi “Mamme & Mostri”, 2004 Giunti Kids.
  • Pippa Goodhart “Vado a dormire”, 2006 Editoriale Scienza.
  • Lucia Scuderi “Allegria gelosia per piccino che tu sia”, 2006 Fatatrac.
  • Marie-Louise Fitzpatrick “Uffa mamma, uffa papà”, 2007 Babalibri.
  • Bruno Munari “Cappuccetto Verde”, 2007 Corraini.
  • Anu Sthohner “La pecora Carlotta”, 2005 Emme.
  • Roberto Piumini “Fiabe per occhi e bocca”, 2001 Einaudi Ragazzi.
  • Lucia Scudieri “Se io tocco…”, 2004 Fatatrac.
  • Leo Lionni “Piccolo blu e piccolo giallo”, 1999 Babalibri.
  • Maria Loretta Giraldo “Filastrocche scaccia paura”, 2006 Giunti Kids.
  • Luciana Martini “Filastrocche della buonanotte”, 2003 Giunti Kids.
  • Tony Ross “Voglio il mio ciuccio!”, 2005 Mondadori.
  • Maria Gianola “Mi piaci così”, 2014 Fatatrac.
  • Kathleen Amant “Anna impara ad usare il water”, 2005 Clavis Prima Infanzia.
  • Kathleen Amant “Non si morde, Anna!”, 2014 Clavis Prima Infanzia.
  • Antonella Abbatiello “La cosa più importante”, 2015 Fatatrac.
  • Guido Van Genechten “Posso guardare nel tuo pannolino?”, 2009 Clavis.
  • Marco Campanella “Topo Tip non fa la nanna”, 2003 Dami Editore.
  • Eric Carle “Il piccolo bruco Maisazio”, 1989 Mondadori.
  • Maurice Sendak “Nel paese dei mostri selvaggi”, 2006 Babalibri.

 

SITOGRAFIA


Non Litigate

Articolo di Laura Ricci

 

Nel conflitto, l’altro mi obbliga a considerarlo, mi invita a vedere un punto di vista che non sia il mio, amplia il mio campo di comprensione del mondo. La felicità non dipende dalle circostanze piacevoli o spiacevoli, ma dal nostro atteggiamento di fronte a queste circostanze.”

(Isabelle Filliozat)

 

Il conflitto è una realtà, un’esperienza comune, quotidiana e costante nella nostra vita, uno stato di relazione che riguarda due o più persone. Il conflitto è un modo naturale di crescita.

Il conflitto, come cita il vocabolario, è immediatamente associato alla guerra, ad immagini dolorose e sgradevoli che ci fa pensare allo scontro, alla lite, alla violenza, al disagio, allo spreco di energia nella discussione. Più difficilmente è associato al cambiamento, all’opportunità offerta di crescita, di creare conoscenza ed apprendimento sia per se che per gli altri.

L’educazione tradizionale usava il termine disciplina per definire e regolamentare i comportamenti problematici; la pedagogia progressista del ‘900 utilizzava il termine cooperazione, credendo nella capacità dei bambini di organizzarsi autonomamente nelle attività di gruppo, eliminando così situazioni problematiche. Entrambi i termini però non chiariscono e aiutano a comprendere appieno, come afferma D. Novara, l’estrema ricchezza dell’esperienza conflittuale.

 

Il punto di vista dell’adulto

Negli ultimi anni si sta assistendo ad una profonda crisi del modello educativo e ad un accentuarsi di fenomeni definiti come “bambino tiranno” o “bambino narcisista” che non sono altro che il manifestarsi dell’egocentrismo della nostra epoca, dove l’autoreferenzialità lascia poca possibilità di essere ostacolata.

Il litigio tra bambini è considerato troppo spesso dagli adulti, principalmente dai genitori, come un’interruzione dell’ordine stabilito, ed in quanto tale deve essere evitato. Questa visione, conseguenza del mito del “bravo bambino”, conduce ad un modello educativo che vieta il litigio e che in caso di conflitto porta inevitabilmente all’individuazione di un colpevole. Come afferma D. Novara invece “La convivenza nasce dal conflitto, non a prescindere da esso”.

Un bambino che non ha potuto sperimentare il conflitto con i fratelli, con i coetanei, ma anche con gli adulti, con molta probabilità da adulto avrà più difficoltà ad affrontare in maniera costruttiva i problemi legati alla relazione con gli altri. E’ proprio grazie alla possibilità di affrontare lo scontro che si riesce a stare con l’altro: il bambino impara a riconoscere se stesso e gli altri, scopre i limiti del proprio egocentrismo, esprime e riconosce le proprie emozioni. E’ in queste occasioni che il bambino individua le proprie capacità, impara a sbagliare e a trovare soluzioni creative.

Quindi al contrario di quello che immaginano gli adulti, i bambini devono poter litigare per poter crescere autonomamente ed accrescere le loro competenze relazionali.

 

Litigio, conflitto e violenza nei bambini

Prima dei tre anni i litigi tra bambini assumono la forma di veri e propri scontri fisici, che nascono a prescindere da motivazioni reali. Successivamente i motivi del litigio riguardano la frustrazione nell’ottenere qualcosa o nel raggiungere uno spazio.

In questi scontri, caratterizzati da forte fisicità, non vi è però violenza intenzionale ma sono la diretta conseguenza del fatto che lo sviluppo comunicativo non rende ancora possibile la verbalizzazione delle emozioni.

Tra bambini si può parlare di litigio e non di conflitto vero e proprio, soprattutto perché fino all’età di 6 anni non è presente, dal punto di vista psicoevolutivo, il pensiero reversibile, cioè la memoria delle offese ricevute. Ciò impedisce lo sviluppo dei sentimenti di rancore o vendetta che invece caratterizzano i conflitti tra gli adulti. E’ per questo motivo che i litigi tra bambini hanno fine dopo pochissimo tempo e che i bambini sembrano avere una capacità innata di fare pace.

 

Strategie e gestione del conflitto

Piuttosto che evitare gli scontri e i litigi tra bambini, gli educatori e i genitori possono facilitare l’apprendimento da tali situazioni seguendo alcuni criteri della gestione dei conflitti:

la neutralità empatica, cioè evitare di cercare il colpevole quindi sospensione del giudizio;
la decantazione narrativa, cioè dare la possibilità di spiegare i fatti (anche attraverso, per i bimbi dopo i 3 anni, il disegno o la scrittura) il che stimola a trovare accordi;
i rituali, cioè momenti di riconciliazione anche in gruppo, in cui si riallacciano i legami interrotti attraverso una comunicazione simbolica (facciamo la pace con una filastrocca, es: “mannaggia la diavoletto che ci ha fatto litigar…”).
I litigi e i conflitti sono densi di emozioni ma, proprio perché i bambini non hanno tutti gli strumenti della verbalizzazione, devono essere guidati al riconoscimento di tali emozioni, tra tutte la rabbia, per poterle affrontare creativamente.

Uno strumento efficace di educazione emotiva, che consente di gestire la rabbia e affrontare il conflitto è Il cestino della rabbia, un rituale collettivo che permette ai bambini di avere a disposizione uno spazio-tempo in cui scaricare la rabbia sia simbolicamente che fisicamente (si crea un contenitore dove i bambini, dopo aver disegnato o scritto su un foglio la rabbia, possono gettarla via con il consenso del gruppo e condividere le emozioni provate).

Uno strumento molto efficace con bambini di 2-3 anni è invece la lettura collettiva di libri illustrati sul tema della rabbia e del conflitto, attraverso la quale si facilità la condivisione di esperienze, il riconoscimento e la verbalizzazione delle emozioni (es: “Che rabbia!”, “Il litigio” di Babalibri).

 

Bibliografia

  • Daniele Novara “Litigare per crescere – proposte per la prima infanzia”, Edizioni Erickson, Trento 2010
  • Daniele Novara “Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti”, Bur Rizzoli, Milano 2013
  • www.cppp.it